Il filo nascosto

Bonjour mes Amies!
Non è un rammendo segreto, tranquille, il titolo riprende la traduzione di Phantom Thread, l’ultima pellicola del geniale Paul Thomas Anderson, in uscita nelle nostre sale il prossimo 22 febbraio.
Vi chiederete perché parlo oggi di un film che potremo vedere fra circa tre settimane e di cui conosco solo il trailer e alcuni spezzoni circolanti in rete dopo il debutto nei cinema statunitensi dello scorso 7 dicembre.
Semplice: perché l’attesa è tale che non resisto alla voglia di condividerla con gli amici di Touché, aspettando ansiosa di goderne la visione e di scambiarci poi commenti ed opinioni.
Nel frattempo, offrendovi qui una scheda da diligente cinefila, mi piace l’idea di interpolare il collage di riferimenti con divagazioni personali, proprio come se ne parlassi in libertà davanti al fuoco di un caminetto, tra una castagna e un goccetto di Irish cream.
Iniziamo dal regista, indicato dalla critica come uno dei più bravi sulla scena internazionale degli ultimi due decenni, a partire dagli unanimi consensi tributati a Magnolia (Orso d’Oro a Berlino nel 1999), film corale (sulle orme di Altman) che nel 2000 meritò l’appellativo di ‘capolavoro’ in diverse recensioni.
Un fiore cinematografico (in realtà era il nome del viale di Los Angeles dove Anderson nacque nel 1970) formato da vari petali-personaggi in fuga dalla realtà, e dalle proprie origini, attraverso le illusioni virtuali della televisione e della droga, ma raccontati con vivacità ed empatia in quadri ad alto tasso emozionale.
Già prima, però, Anderson aveva ricevuto applausi per Boogie Nights – L’altra Hollywood (1997), pellicola che segnò l’inizio di una carriera sfolgorante, contraddistinta in seguito da altri film osannati dai critici e molto amati dal pubblico (binomio non facile), come Ubriaco d’amore, premio per miglior la regia al Festival di Cannes del 2002, o Il petroliere, vincitore dell’Orso d’Argento nel 2007, o ancora The Master, Leone d’Argento a Venezia nel 2012, senza contare ben 6 candidature all’Oscar, di cui l’ultima nel 2015 assegnata al film Vizio di forma per la migliore sceneggiatura non originale (era tratta da un romanzo di Thomas Pynchon).
PTA (acronimo di Paul Thomas Anderson) appartiene a quella generazione di artisti che, come l’amico Quentin Tarantino, ha imparato a fare cinema guardando migliaia di film e ottenendo così una conoscenza enciclopedica della tecnica cinematografica, con occhio particolare ai suoi maestri d’ispirazione, tra cui senz’altro John Huston, Alfred Hitchcock, Orson Welles, Stanley Kubrick, Max Ophüls, Robert Altman, Martin Scorsese e Jonathan Demme. La sua firma è quindi garanzia di opere d’alta qualità, impeccabili, al limite del perfezionismo.
Ed è appunto la tensione quasi maniacale alla precisione del risultato che accomuna il regista a Daniel Day-Lewis, interprete di bravura magistrale – unico ad aver vinto 3 Oscar come attore protagonista – capace di dare consistenza verosimile a personaggi tra loro diversi, basti pensare al neurochirurgo Tomas ne L’insostenibile leggerezza dell’essere di P. Kaufman (1988), tratto dal romanzo di M. Kundera, o a Christy Brown, lo scrittore e pittore paraplegico del film Il mio piede sinistro di J. Sheridan (1989) o all’intenso Nathaniel ne L’ultimo dei Mohicani di M. Mann (1992) o all’avvocato Archer ne L’età dell’innocenza di M. Scorsese (1993), o ancora all’indimenticabile Abraham Lincoln nella pellicola omonima di S. Spielberg (2012). Con Anderson aveva già recitato nel film Il petroliere (storia di un ex minatore texano che diventa un magnate del petrolio nel primo ‘900) e qui ritorna sotto la sua regia in un ruolo distante, ma ugualmente perfetto, vestendo i panni dello stilista inglese Reynolds Woodcock, (figura di fantasia, con tratti ispirati a Cristobal Balenciaga), sarto di classe nella moda londinese degli anni ’50 e protagonista della toccante storia d’amore narrata nel film Il filo nascosto.
Soltanto l’accoppiata Anderson/Day-Lewis rappresenta, dunque, un ottimo motivo per mettere in agenda la visione di questa pellicola.
Opera cinematografica che sarà l’ultima per il grande attore inglese, poiché sul set ha dichiarato che dopo il ciak finale avrebbe dato il definitivo addio alla recitazione.
Dobbiamo credergli? Chissà!
Sir Daniel Blake Day-Lewis l’aveva già detto una volta, quando nel 1997 iniziò un lungo ritiro, esteso fino al 2001, durante il quale lasciò lo star system hollywoodiano per fare l’apprendista calzolaio in una bottega di Firenze specializzata in scarpe su misura (!). Vedremo se davvero terrà fede al nuovo proposito, decisione che purtroppo priverà il pubblico del suo talento. Ma anche gli altri interpreti de Il filo nascosto si dimostrano all’altezza del confronto, sia Lesley Manville (già attrice di Mike Leigh e premiata protagonista di Another Year), qui nel ruolo di Cyril, enigmatica e protettiva sorella di Reynolds e co-titolare dell’atelier The House of Woodcock, sia Richard Graham nei panni di Riley e la brava Camilla Rutherford nella parte di Johanna, nonché, in particolare, la giovane e coinvolgente Vicky Krieps nel ruolo di Alma, bella cameriera di un bistrot di periferia che arriverà a sconvolgere come un vento d’amore i rituali perfezionisti e ossessivamente programmati del noto stilista, fino a diventarne la modella preferita, l’amante e la Musa ispiratrice.
Perché la trama del film, in fondo, è tutta qui, nel lento e intricato sviluppo dei sentimenti che nascono tra Reynolds e Alma, delicata sinfonia di emozioni splendidamente accompagnata dalla colonna sonora di Jonny Greenwood (il polistrumentista dei Radiohead) e ben ambientata nella lussuosa dimora georgiana scelta dal regista e dallo scenografo Mark Tildesley per ricreare l’atmosfera dell’epoca.
Siamo infatti – come detto- nella Londra vittoriosa del secondo dopoguerra, dove gli abiti sfarzosi di Woodcock vestono le donne della famiglia reale, le dive del cinema, le ereditiere e le dame dell’alta società, tutte affascinate dal suo stile inimitabile.
Eppure il raffinato couturier che così bene incontra i gusti e i desideri femminili intrattiene con il gentil sesso dei rapporti incostanti, brevi relazioni che colleziona eternamente insoddisfatto, forse prigioniero del ricordo di una madre idealizzata e prematuramente scomparsa (carattere simile al nobile de Winter interpretato da Laurence Olivier nel film Rebecca – La prima moglie di Hitchcock, non a caso tratto dall’omonimo romanzo di Daphne du Maurier che Anderson ha utilizzato come riferimento per la sua sceneggiatura).
In un’esistenza dorata dove ha sempre ciò che vuole, Reynolds pare avere un cuore di cristallo, sublimato nell’estenuante ricerca di perfezione dei suoi capi sartoriali e cinicamente insensibile a debolezze sentimentali che non ritiene interessanti per un artista del suo livello.
L’incontro casuale con Alma, però, mette in crisi di colpo tutte le sue certezze, perché lei è diversa dalle donne di passaggio che gli offrono spunti creativi e frivola compagnia, è una ragazza intelligente e caparbia della working class che con determinazione concreta e una dolcezza spontanea e disarmante riesce a incunearsi nei contrasti del suo animo fino a rompergli la corazza con la forza dell’amore.
Un classico plot di seduzione progressiva che può apparire scontato, perfino banale, ma che davanti alla cinecamera di Anderson (qui anche direttore della fotografia) si tende come un arco in scene memorabili, che sfuggono agli stereotipi della love story per mostrarci la realtà di un denso dialogo sentimentale fatto anche di compromessi e rispettive necessità, dove il bisogno di cure e di materno affetto dell’attempato (e malato) stilista si unisce per un contratto non scritto agli ardenti desideri di riscatto sociale della ragazza, come ben descrive una battuta di Alma all’inizio del film: “Reynolds ha trasformato i miei sogni in realtà e io gli ho dato in cambio ciò che desidera di più: tutta me stessa”.
Il filo nascosto è allora il legame inestricabile tra il logico ordito del vissuto e la trama irrazionale della passione d’amore, una stoffa cangiante che avvolge i personaggi in un abbraccio di profonda comprensione, che non li fonde in un romantico assoluto, ma li conferma invece nel rispetto complice delle loro identità.
E pare sia proprio questo sguardo lucido l’atout vincente del film, perché – come ha notato la critica Marta Maiorano – “non si tratta di un cinema catartico, non avviene alcun processo di embodiment, perché c’è sempre una mediazione cognitiva che Paul Thomas Anderson pone tra lo spettatore e la storia”.
La fascinazione dell’opera, piuttosto, presente nella mente degli stessi personaggi, è nutrita da sensazioni ineffabili e accoglienti carezze estetiche, dal gusto dei cibi raffinati e dalla sensualità della luce soffusa in colori pastello, nei tessuti preziosi, nelle sete e nei tulles drappeggiati sul corpo di Alma con amorevole grazia, nell’impegno pittorico di Reynolds per la modella-quadro e nell’intima soddisfazione della ragazza amata di riconoscere finalmente se stessa in quel ritratto artistico.
Un’altra critica, questa volta l’americana Manohla Dargis, ha esordito nella sua recensione sul New York Times con le parole che vi traduco: “Due vite e due perversioni diventano una sola in questo bellissimo film, a tratti perfino divertente, che presenta una storia d’amore insolita fra un maestro e la sua musa, un saggio su come trattare l’amore sul grande schermo“.
Ecco, amiche, tale sintesi a commento ben si presta a concludere ciò che ho potuto raccontarvi di questo film, basandomi solo sulle mie (scarse) conoscenze del regista e degli interpreti e su ciò che ho intuito dalla visione del trailer e di alcune brevi scene e dalla lettura di varie recensioni, nella speranza che ciò sia sufficiente per invogliarvi a vederlo, per il resto non posso far altro che aspettarne l’uscita in Italia e augurarmi che queste righe vi siano utili come spunti di confronto per i vostri eventuali commenti dopo la visione, sempre nel clima simpatico e informale di questo nostro caminetto-cineforum, dove ora le castagne sono solo gusci e il goccetto di Irish cream è un ricordo sul palato, ma dove mai si spegne il calore dell’amicizia e il piacere di condividere il nostro amore per il buon cinema!
À bientôt mes Amies!